Festival del Film Etnomusicale 2000-2007
XVIII RASSEGNA DEL FILM ETNOMUSICALE 2000
SUS OJOS SE CERRARON* Spagna/Argentina
(Jaime Chavarri 1998, 93’)
A Buenos Aires, l’anno è il 1933. La vita di Renzo Franchi (Darìo Grandinetti), un oscuro cantante di tango è sul punto di cambiare per sempre per l’amore della ragazza spagnola del suo chitarrista, Juanita (Aitana Sanchez Gijòn). Colpo di fulmine e immediato matrimonio. Lei, colpita dalla sorprendente somiglianza di Renzo con Carlos Gardel, lo convince a cantare come l’idolo delle folle argentine. Da un casuale incontro con l’impresario di Gardel, nasce una sostituzione in un programma radiofonico. Intanto il suo rapporto con la moglie si sfalda, ma di nuovo il tema del sosia si ripropone durante la fallimentare tournée di Renzo in Venezuela e Colombia. Gardel è impossibilitato a cantare e al suo “doppio” viene proposto un affare dalle conseguenze inusitate, che mischia sapientemente leggenda e realtà in un ribaltamento eclatante che, come recita un vecchio detto, “se non è vero è ben trovato”. Il finale conferma, con malizioso cinismo, la celebre canzone del titolo “i suoi occhi si chiusero e la vita continua” e ciò serve benissimo al regista spagnolo quale pretesto per antologizzare tanghi famosissimi e per insinuare il prediletto tema della copia e del falso, sempre presente nella sua opera (si veda il trionfale “Las cosas del querer”). Menzione particolare per la voce di Renzo, che è quella di Rafael Rojas e per le musiche originali, scritte da Rodolfo Mederos.
TANGO, BAYLE NUESTRO* Argentina
(Jorge Zanada, 1988, 70′)
Per la prima volta una cinepresa entra in una balera di Buenos Aires, alla ricerca delle motivazioni, del modo di vivere e l’estrazione sociale degli anonimi “milongueros”. Dal confronto coreografico tra questi rappresentanti della più verace fonte popolare, i professionisti (come Juan Carlos Copes, María Nieves e Miguel Angel Zotto), e i ballerini di cultura accademica (Julio Bocca, balletto; Milena Plebs, danza moderna; Ana Stekelman, danza contemporanea) si snoda il film, definito da Solanas “il più bello, autentico e poetico film mai girato sul tango”, che offre tra l’altro la prima apparizione filmica del maestro Pedro Monteleone. E, fra i cultori del tango stranieri, l’attore nordamericano Robert Duvall, il maestro neozelandese Arthur Bold e il solita russo Vladimir Vassiliev. Primo lavoro del bandoneonista Daniel Binelli come autore del leit-motiv del film e consulente musicale. Insomma, il tango-danza come espressione di una ritrovata identità nazionale.
EL FUEYE* Argentina
(Gustavo Macrì, 1999, 15’)
Cortometraggio che prende in esame l’infanzia del grande Anibal Troilo, l’indimenticabile Pichuco. Non a caso l’infanzia, perché questo enfant prodige fu segnato fin dalla più tenera età dalla disgrazia e dal talento: rimasto orfano di padre a otto anni, pochi mesi dopo rimane stregato da due bandoneonistas; da allora forma un’unità indissolubile con lo strumento, a dodici anni l’esordio, a diciotto è già nell’Orchestra di De Caro e a ventitré è leader. Sarà il maestro di Piazzolla e rivoluzionerà il tango. Proprio i suoi inizi sono esemplari di quanto casualità e concause della vita possono dare adito al sorgere di una forte vocazione e di come può nascere una leggenda.
AL CORAZON* Argentina
(Mario Sabato, 1995, 92’)
Più che un documentario su Buenos Aires e il tango, questo lungometraggio diretto dal cinquantenne Mario Sabato è un vero e proprio saggio visivo, un partecipato studio puntuale ma nello stesso tempo altamente spettacolare. Si avvale infatti della presentazione di Sergio Romàn e di Adriana Varela, insuperabile cantante, forse la più grande interprete in circolazione; la consulenza è di Enrique Cadìcamo, poeta paroliere e autore teatrale dalla vena nottambula, gran pittore di ricordi, e dello scrittore Ernesto Sàbato. Quest’ultimo, padre del regista, che molti ricordano per il bel romanzo “Sopra eroi e tombe”, spiega la sua teoria del tango come espressione dei due principali attributi dell’animo argentino: risentimento e tristezza. “Al Corazòn” offre dunque una ragionata scelta di cantanti e di canzoni e al contempo un’analisi colta e spassionata di un fenomeno di nuovo sulla cresta dell’onda, a giudicare dalle riedizioni e reinterpretazioni discografiche, dal fiorire di scuole di ballo, dal pullulare di festival e concerti. Il film attraversa il secolo con le immagini e le voci di film celebri, da “Noches de Buenos Aires” (1935), o “La vida es un tango” (1939) a “Romance musical” (1947) o “Buenos Aires mi tierra querida” (1953), da Carlos Gardel che canta “El dìa que me quieras” alla grande vedette Libertad Lamarque che in un film del 1945 affronta la rivale in amore, Eva Duarte. Ernesto Sàbato ricorda che oggi anche il Papa ha assolto il tango perché è inoffensivo, e forse noioso, e racconta la storia del bandoneòn, l’organetto nato in Germania per celebrare la musica sacra, e finito a Buenos Aires per la gloria del tango.
RITMO DI TANGO* Argentina
(Rosalia Polizzi, 1974, 60’)
Eccellente documentario prodotto dalla RAI su Astor Piazzolla, una vera rarità, comprendente parte degli storici concerti del 1974 eseguiti a Venezia e Buenos Aires da Piazzolla con il sassofonista Gerry Mulligan, in seguito all’incisione, in Italia, di “Summit”. Grande repertorio cui si uniscono tre astri nascenti del bandoneon: Binelli, Mederos e Ruggieri. Inoltre Amelita Baltar, emergente figura della nuova musica argentina, all’epoca compagna del compositore, interpreta “1965” e “Jacinto Chiclana” su testi di Borges, del quale è inclusa una memorabile intervista. E ancora Osvaldo Pugliese che esegue il suo “Recuerdo”. Interessanti anche i numeri di ballo ambientati nelle strade di Buenos Aires, dall’Obelisco al quartiere la Boca nelle foci del Riachuelo, con le coregrafie di Ana Itelman.
EL ABRAZO* Argentina
(Jan Van den Berg, 1991, 50′)
Documentario nel documentario, come recita il sottotitolo “Amsterdam-Buenos Aires vice versa” narra le vicende di un regista olandese che attraversa l’Argentina con una coppia di suoi connazionali ballerini, Wouter e Martine, alla ricerca delle origini del tango. Ondivago ed erratico, per locali e caffé, per strade e casas de tango, registra le testimonianze di alcuni tra i più rappresentativi ballerini dell’età d’oro, gli anni Trenta e Quaranta: da Carlos Estevez alias Petroleo (in onore dei suoi capelli imbrillantinati) un pioniere il cui magnetismo ha contribuito al debordante successo internazionale del ballo, a Virulazo, una leggenda che dura una vita, del quale è stato detto che “quando balla porta il barrio sul palco”; oppure Antonio Todaro, maestro di tutti i ballerini contemporanei.
I loro racconti, sostanziati da cospicui materiali d’archivio, offrono il destro per un serrato confronto con le coreografie delle generazioni odierne. In tal modo “El Abrazo” traccia una suggestiva storia di una danza tra le più controverse, di volta in volta fatta oggetto di censura, lode, seriosa analisi o ironico dileggio. Un ballo nato dall’ibridazione tra culture diverse e che in virtù di tale origine si è sviluppato in particolari mood nelle diverse latitudini, non solo in Europa ma anche in Oriente: ad esempio in Giappone proliferano le orchestre “tipicas” e ballerini e ballerine sembrano cloni più argentini degli argentini. Il viaggio diviene quindi simbolica metafora di un Buenos Aires – mondo e vice versa, a ribadire l’universalità del tango.
LAS VEREDAS DE SATURNO* Francia/Argentina
(Hugo Santiago, 1985, 145’)
Hugo Santiago, che già nel precedente “Invasion” aveva affrontato il tema della resistenza, con l’eccezionale partecipazione di Jorge Luis Borges, qui abborda il problema con piglio nervoso e disperato. Contemporaneo al celebrato “Tangos – El exilio de Gardel” di Solanas e per certi aspetti contiguo però diversissimo, questo “I marciapiedi di saturno” scatena con violento impeto le nostalgie in un commovente intreccio che narra di un virtuoso di bandoneon argentino esiliato a Parigi. Le ipotesi circa le possibilità di un suo ritorno, mentre attende la visita della sorella guerrigliera, sono naturalmente destinate a naufragare. In una suite di immagini barocche di grande severità, grazie ad un sapiente uso della macchina da presa e di un montaggio vertiginoso, quasi in funzione contrappuntistica con il magnifico commento musicale di Rodolfo Mederos, Santiago ha saputo condensare per allusioni poetiche e senza sbavature, lo smarrimento dell’esilio, la spietata analisi dei sogni militanti, lotta armata compresa, destinati al fallimento e alla frustrazione. Opprimente e deprimente esame di un presente (metà anni Ottanta, gli stessi descritti dal nostro Carlotto nel bellissimo “Le irregolari”) che impedisce ogni ritorno in un paese che vede trionfare il regime poliziesco e l’orrore del fenomeno dei desaparecidos. L’inanità della lotta al sistema, il disgusto per i compromessi, si pongono anche come riflessione sull’operare artistico.
TANGO: THE OBSESSION* Argentina
(Adam Boucher, 1998, 67’)
Il tango è molto più di una danza. E’ un viaggio che rispecchia le fasi di un amore lungo una vita intera. Nuove battaglie, astute comunicazioni, l’arte di condividere: i maestri trascendono i limiti del corpo per permettere alle anime di toccarsi. La storia del tango riflette la storia di una nazione, ma le sue lotte rispecchiano quelle dell’umanità. Tutte esperienze, queste, che rivivono in “Tango: the Obsession”. Ballerini, musicisti, poeti e storici spartiscono le proprie più intime esperienze e pensieri quali parti di un unico, seducente, bohemien e ossessivo stile di vita. José Gobello, presidente dell’Accademia Nazionale di Lunfardo, e altri, presentano una concentrata storia del tango partendo dalle sue radici africane. Facundo Posadas parla della sua esperienza personale in qualità di uno dei superstiti afro-argentini e di rispettato milonguero (traducibile più o meno con l’espressione “nato per ballare il tango”). La storia della danza viene seguita nell’avvicendarsi di tre generazioni del tipico “cowboy” argentino: il Gaucho, suo figlio il Compadre, e l’ultimo, il Compadrito, donnaiolo ribelle che integra nel tango movimenti da “nero”. Per scoprire, quindi, che la terza maggiore influenza in questo ballo è stata determinata dall’onda di giovani immigrati europei nel tardo Ottocento. Sono i loro strumenti, desideri, solitudini e bramosie, che hanno dato al tango la sua voce dolce-amara e l’appeal universale di cui gode.
TANGO* Argentina
(Carlos Saura, 1999 110’)
Con Miguel Angel Solá (nella parte del regista del musical, claudicante dopo un incidente), Cecilia Narova (la moglie ballerina che lo lascia), Carlos Rivarola (l’altro, ballerino) e Mía Maestro (ballerina più giovane raccomandata da un mafioso padrone del locale, della quale il regista si innamorerà).
Tra finzione e realtà, ogni cosa si ricompone: il pugnale non era poi così minaccioso, e le due donne, in abiti Liberty, ballano tra loro e si baciano sulla bocca. C’è chi dice che Saura avrebbe potuto risparmiarsi certe banalità della storia e dei dialoghi (“Mi sento pieno di energie, giovane dentro”, “Suona in maniera incredibile”). Sta di fatto che mai il cinema ha tradotto il ballo in immagini superbe come queste (Vittorio Storaro vinse il Gran Premio a Cannes 1998), mai come qui si è letto il tango come continua ingerenza del passato, memoria storica e memoria soggettiva, fonte di nutrimento. E mai il legame tra il tango e gli emigranti italiani è stato espresso in termini così poderosi: un popolo carico di valigie avanza sull’orizzonte, tra il sole e la luna, con la musica di “Va pensiero”. Grandi glorie del passato, guardate con l’occhio ammirato di oggi: Carlos Nebbia danza “La Yumba” di Pugliese con la giovanissima Beatriz; Juan Copes, in canottiera e cappello, insegna i passi più compadritos (poggiando il piede di fianco affinché la ballerina vi salga come su un gradino); Tita Merello canta una milonga dallo schermo e una ragazza si esercita doppiandola; l’ottantunenne Horacio Salgán al pianoforte, a capo del Nuevo Quinteto, interpreta superlativamente il suo tango “A fuego lento” del 1953, mentre un microfono indiscreto amplifica il suo “tata tara ta ta taritá”. In silenzio la sequenza dei torturatori, che coprivano con tanghi a tutto volume le urla dei prigionieri. Il protagonista si vede bambino, seduto in un banco di scuola, col grembiule bianco, e subito l’amata bambina bruna dagli occhiali e tutti i compagni della classe ballano. Partecipazione straordinaria di Julio Bocca e Juan Luis Galiardo. Numerosissimi tanghi, da “Zorro gris” di Canaro a “Calambre” di Piazzolla, e altri originali di Lalo Schifrin, come “Tango para percusión” e “Los inmigrantes”, perfettamente amalgamati a quelli del repertorio noto. Il film finisce con una sedia vuota (l’assenza?), e tante sedie vuote (i desaparecidos?).
Meri Lao
XIX RASSEGNA DEL FILM ETNOMUSICALE 2001
YEMANJA’, MITO E DESIDERIO Brasile
Il culto della dea del mare a Bahia
(Multiproiezione: immagini di Patrizia Giancotti su partitura di Francesco de Melis, 2001, 30’)
‘Madre i cui figli sono pesci’, magna mater africana che governa sesso e parto, sirena mediterranea dai lunghissimi capelli neri, bionda sirena nordica, Madonna sinuosa vestita di onde, madre e amante di tutti i pescatori di Bahia: Yemanjá è il mistero del femminile profondo, in cui mito e desiderio s’incontrano. Il culto di Yemanjá, oggi popolarissimo in Brasile, è di origine egba, una popolazione di lingua yoruba che abitava la regione tra Ifé e Ibadan in Nigeria. Arriva a Bahia, con la tratta degli schiavi e, anche per il fatto di aver protetto i suoi figli nella traversata, trova un posto d’onore nel culto degli dèi-orixás, raccogliendo su di sé, nel più interessante esempio di polisincretismo religioso di Bahia, una iconografia tra le più variegate. Alla base stessa di questa religione cosiddetta di possessione si trova un tema mitico: la discesa degli dèi che, per nostalgia della danza (del tempo in cui il mondo degli dèi e quello degli uomini comunicavano tra loro), vengono ad incarnarsi nei corpi dei devoti. Il mito si fa carne richiamato dalla musica e dal desiderio degli iniziati di essere altro da sé, o meglio di portare alla superficie strati rimossi o trascurati della personalità, che chiedono accesso all’espressione. Nella festa corale dedicata ogni 2 di febbraio alla dea del mare, in una girandola di danze, di fiori e profumi, tutti portano un dono a Yemanjá, e nel momento della consegna tra onde, esprimono un desiderio individuale: immense ceste prendono il largo stracolme dei desideri dell’intera città. In questo giorno i miti della madre africana e della sirena, si intrecciano e trovano sbocco nella danza delle onde che si produce nel corpo di quanti nel contempo desiderano, accolgono e svelano la loro Yemanjá.
NELLA CASA DEGLI YANOMAMI Brasile
Tra gli indios della foresta Amazzonica
(Tito Rosemberg, 2001, 24’)
Nello storico momento della demarcazione delle terre indigene, Tito Rosemberg registra la cacciata dei cercatori d’oro, e ha la possibilità, quanto mai rara, di convivere con gli indios Yanomami nella regione di Roraima, nell’Amazzonia brasiliana. Fortemente penalizzati dalla presenza di giacimenti preziosi e per questo vittima di invasioni da parte dei cercatori-garimpeiros, gli Yanomami vivono tra il Venezuela e il Brasile. In quest’ultimo sono circa 11.000, divisi in 208 comunità ed abitano un’area di 96.650 km2, riconosciuta ufficialmente dal governo federale del Brasile il 22 maggio 1992, tempo in cui furono realizzate le riprese, un unicum nel loro genere. Il film, mette l’accento sulla vita di comunità all’interno della casa collettiva-xapono. Questo grande anello con struttura in legno e tetto di foglie, con il suo vasto spazio centrale in terra battuta, è una delle più straordinarie soluzioni abitative che l’uomo abbia mai ideato e denota il carattere marcatamente comunitario della cultura Yanomami. La casa circolare incastonata in una natura viva e lussureggiante, rimanda l’immagine della coesione del piccolo gruppo, che per sopravvivere si stringe in un abbraccio tra “esseri umani” (questo è il significato della parola Yanomami), riuscendo così a stabilire una perfetta simbiosi con la foresta di cui fa parte. Il gesto quotidiano nella preparazione del cibo, nella lavorazione delle amache, nella caccia, nelle relazioni interpersonali, nella pittura corporea, si integra all’evento straordinario, sempre sottolineato dal canto. Così avviene nella festa della pupunha, dove il canto accompagna la danza, nella morte, con il lamento funebre delle donne, nell’arrivo inaspettato di un dolore, con il canto dello sciamano, nel momento dell’abbraccio tra due amici. Il dialogo ritmico tra lo sciamano e un ragazzo, unico superstite di un villaggio vicino decimato dalla malaria portata dai minatori, è, anche per il suo carattere di straordinarietà, il punto più alto dell’opera. L’incontro diventa drammatizzazione e reiterazione dell’evento, fino a purificarsi, al limite dell’alterazione della coscienza, in consolazione e conforto, attraverso il canto, i gesti, il fremito dei corpi, l’abbraccio, l’accoglienza.
Sao Paulo Saudade do Futuro* Brasile
(Marie-Clémence & César Paes, 90’, 2000)
Dall’altezza vertiginosa dei grattacieli in costruzione alla profondità della metropolitana, dagli incontri politici alle feste da ballo più popolari, possono essere giornalisti, sindaci o tassisti, i Nordestinos ci fanno conoscere la “loro” San Paolo, una delle più grandi città del mondo con i suoi 16 milioni di abitanti. Sono emigrati a San Paolo, nel Sud del paese, per fuggire la siccità del Nord o per fare fortuna, o semplicemente a lavorare perché il “magico Sud” detiene la maggior parte delle attività economiche ed industriali del Brasile. Con una chitarra o un tamburo, come nelle vita quotidiana di un redattore, i Nordestinos improvvisano sul posto rime e poesie cantate, traendo ispirazione dalle sollecitazioni e le problematiche del pubblico presente. “Saudade do Futuro” prende in prestito gli occhi dei Nordestinos per guardare San Paolo e le loro voci per cantare la città. La cacofonia urbana si mischia con la musica e i repentes, improvvisatori precursori della musica Rap, raccontano la megalopoli sudamericana con umorismo e rime baciate. Non un filmato sulla loro povertà né sull’emarginazione di cui sono ancora vittime, ma uno sguardo alla ricchezza della loro cultura, alla loro straordinaria capacità di adattamento e alla indomabile saudade nel futuro, con la speranza che da lì verrà la soluzione di tutti i loro problemi.
Fé* _____________________________ Brasile
(Ricardo Dias, 1999, 91’)
“Fé (Fede)” è un film documentario che tratta della religione e della fede nel Brasile di oggi. Il principale soggetto è il significato e l’uso della fede da parte del popolo brasiliano. Mostra grandi ceremonie religiose e alcuni dei più importanti rituali delle differenti religioni e sette presenti in Brasile e dei loro adepti. “Fé” è un film di ricerca e documentazione, trattandosi di una visione impressionistica della religione e della fede in Brasile. L’autore parte da un concetto di base: la religione non è l’oppio dei popoli. La fede ha un significato fondamentale per i Brasiliani e la sua presenza è più incisiva di quanto sembri. Per meglio comprendere il Brasile e i Brasiliani è necessario andare oltre i pregiudizi e vivere profondamente la religione e la fede del popolo.
Oriki * ___________________________________ Brasile
(Jorge Alfredo & Moisés Augusto, 1999, 15’)
Una festa tradizionale di Yemanjà, la regina del mare, è il leit-motiv di questo cortometraggio. Con un linguaggio a metà strada tra il poetico e il documentaristico, il film osserva la devozione delle figlie del santo e i pescatori della spiaggia di Rio Vermelho. Il testo poetico e musicale, dedicato agli Orixà, è cantato e declamato da Caetano Veloso e Arnaldo Antunes. L’intenzione dell’autore non è quella di spiegare lo sviluppo del rito, bensì il misticismo popolare brasiliano attraverso la rappresentazione dei simboli del candomblé. Il film potrebbe essere descritto come “un poema di suoni e visioni”.
Pierre Fatumbi Verger. Mensageiro entre dois mundos* Brasile
(Luis Buarque de Hollanda, 2000, 82’)
Filmato sulla vita e l’opera del fotografo ed etnografo Pierre Verger, narrato e presentato da Gilberto Gil e diretto da Lula Barque de Hollanda. Dopo aver viaggiato per il mondo come fotografo, Pierre Verger, si è radicato a Salvador, Bahia, nel 1946 dove ha passato il suo tempo a studiare le relazioni e le influenze culturali tra Brasile e Golfo di Benin, in Africa. Tra i suoi diversi lavori si evidenziano “Fluxo e Refluxo”, sua tesi di dottorato per la Sorbona, e il libro “Orixas da Bahia”.
Integralmente filmato in pellicola cinematografica con locations in Benin, Parigi e Salvador, “Mensageiro entre dois mundos” include l’ultima intervista concessa da Pierre Verger (filmata un giorno prima della sua morte, nel febbraio del 1996), esteso materiale fotografico e testi prodotti da Verger durante la sua vita.
Filhos de Gandhy* Brasile
(Lula Buarque de Hollanda, 2000, 78’)
Documentario sulla storia dell’associazione culturale e gruppo di Carnevale bahiano, “Filhos de Gandhy”. Diretto da Lula Barque de Hollanda, il film descrive la traiettoria del gruppo dalla sua fondazione nel 1949 ai giorni d’oggi, incluso la sfilata commemorativa del suo Cinquantenario durante il Carnevale del ’99.
Il programma contiene scene filmate in India, con una sfilata dell’ensemble per le strade di Udaipur, e interventi sulla figura del Mahatma Gandhi, il leader spirituale e politico a cui i fondatori del bloco si ispirano. Oltre la storia del gruppo, il documentario affronta l’importanza e il significato della politica della non-violenza professata da Gandhi.
Carlinhos Brown. Bahia Beat* Brasile
(Claude Santiago, 1996, 52’)
Percussionista, compositore ma anche agitatore sociale e idolo delle bidonville, CARLINHOS BROWN è ormai considerato uno dei più grandi artisti della musica brasiliana. Ritratto di colui che ha rielaborato i ritmi afro-brasiliani per diffonderli ad un livello popolare. Salvador de Bahia. E’ qui, in una delle favelas ai bordi della città, che abita CARLINHOS BROWN. La camera lo segue nei luoghi della sua quotidianità: la scuola di percussioni che ha creato per i bambini della bidonville, il caffè dove si ritrova con gli amici, lo studio dove lavora. Canta e suona con un giovane rapper, dialoga tramite tamburi con il suo maestro, il percussionista Pintado do Bongo. “Qui non ci sono soldi, e allora suoniamo sui bidoni”. Ha creato uno stile brasiliano impregnato della “terra rossa di Bahia” ma anche delle radici africane e giamaicane, un ritmo coinvolgente, come dimostrano le scene del concerto che ha tenuto a Salvador de Bahia davanti a 50.000 persone scatenate. CARLINHOS BROWN si definisce come un “post-tropicalista” che completa il lavoro di coloro che l’hanno preceduto – Gilberto Gil o Jorge Ben – tessendo un legame tra le culture del mondo. Nel 1984 ha iniziato a scrivere per molti artisti e velocemente le sue composizioni si sono trasformate in successi; il grande pubblico lo ha conosciuto grazie a Caetano Veloso e Djavan, di cui diventa il percussionista che, in alcuni concerti, non esita a suonare sui secchi o sui bidoni delle immondizie…Ha composto per Sergio Mendes, Marisa Monte e firma gli album di Lee Ritenour, Wayne Shorter e “Bahia Black” di Bill Laswell (1992). A Bahia è un attivista politico e sociale ben conosciuto e ha dato vita alla formazione Timbalada, sorprendente collettivo di oltre 200 percussionisti che fa furore ogni volta che si esibisce.
Maria Bethania. Bahia Beat* Brasile
(Hugo Santiago, 2000, 52’)
Soprannominata la Greta Garbo di Rio, Maria Betania è la prima artista brasiliana ad aver venduto più di un milione di dischi con un solo album “Alibi”, ed è tuttora la cantante più rispettata in Brasile. Apparsa sulle scene nel 1965, ha subito obbligato la critica musicale a rivedere i propri concetti; bollata come ‘contestataria’, in piena dittatura, a 18 anni, provocava i militari con le sue canzoni, ma rifuggendo ogni etichetta ha poi ri-orientato il suo lavoro verso un repertorio più eclettico.
Artista indipendente e dalla forte personalità, si è costruita una carriera tra le più originali della musica brasiliana, proponendo per prima musica e letteratura durante le sue esibizioni, regalando interpretazioni sempre vibranti ed appassionate che le permettono di passare naturalmente dai brani di samba al più sofisticato repertorio di Chico Barque, che non a caso la considera la sua migliore interprete.
Con questo filmato, il regista Hugo Santiago intraprende un doppio viaggio: un Argentino ritorna nel suo paese alla ricerca dei suoi amici di Bahia. Mentre il lavoro, i dischi e la carriera della grande stella brasiliana sono ben conosciuti, gli inizi, la formazione, i suoi primi anni, sono ancora avvolti in un alone di mistero e di leggenda. Incrociando luoghi ed epoche, il film ricerca le origini della voce e dello stile di Maria Betania; guidato dalla cantante, insieme a Caetano Veloso, Chico Barque e il grande Gilberto Gil, il regista esamina il contesto del Nord Est. Rio de Janeiro, Salvador de Bahia, la natura, la tradizione e l’arte barocca…un viaggio sia verso le origini della musica che dello stesso popolo brasiliano.
Nella casa di famiglia a Santo Amaro, il film finisce per parlare dell’infanzia di Maria Betania e dell’energia misteriosa dalla quale la musica si irradia.
CHICO, OU O PAIS DA DELICADEZA PERDIDA* Brasile
(Walter Salles e Nelson Motta, 1989, 60’)
Uno show prodotto nel 1990 per celebrare i 25 anni di attività di Chico Buarque offre l’opportunità a Walter Salles per una riflessione sul Brasile contemporaneo. Nei testi delle canzoni di Chico sono affrontati vari problemi del paese, uniti al gusto ed al grande fascino delle interpretazioni del cantante carioca. Ospiti di Chico sul palco, Gal Costa e Gilberto Gil. I brani filmati da Salles sono stati scelti dallo stesso Chico per rappresentare in maniera unitaria la sua carriera.
BOSSA NOVA* Brasile
(Walter Salles, 1992, 60’)
Questo documentario è stato il primo a raccontare la storia della Bossa-Nova. Articolato attorno a due figure preminenti di questo genere, JOAO GILBERTO e ANTONIO CARLOS JOBIM, il film traccia anche con l’aiuto di numerosi filmati d’archivio, la storia di una musica che in breve tempo diventerà una delle più popolari al mondo.
Con “The Girl from Ipanema”, “Corcovado” o “Zingaro” è nata una nuova espressione musicale; trent’anni più tardi i due musicisti si ritrovano e danno una serie di concerti memorabili, dei quali possiamo vedere lunghi estratti.
Bahia, ‘Roma Negra’ Brasile
(Gustavo Dahl, 1997, 56’)
Roma come Bahia, è quanto pensarono gli organizzatori di un festival che nell’agosto 1983 trasformò la capitale italiana in un centro del ritmo e del samba. A Roma c’erano gli straordinari protagonisti della scena bahiana, il poeta Dorival Caymmi e la voce della bossa-nova Joao Gilberto, il sambista Batattinha ed i giovani tropicalisti Caetano Veloso, Gilberto Gil e Gal Costa, pronti ad invadere una città con la loro musica , per una messa in scena dfasi differenti della vitalità artistica bahiana: Il film è un omaggio partecipe e un diario appassionato di un’esperienza unica e contagiosa di gioia ed euforia. Filo conduttore del filmato è la storia del samba tracciata dal musicologo brasiliano Sergio Cabral.
CAETANO, 50 AÑOS* Brasile
(Walter Salles, 52’, 1994)
Caetano Veloso è uno dei protagonisti più originali ed auterevoli del rinnovamento musicale brasiliano dalla fine degli anni ‘60. Cantante e compositore, ma anche regista di cinema, giornalista e scrittore, Caetano è, contemporaneamente, l’erede naturale rispettoso della tradizione sonora del Brasile, ed un artista cosmopolita e poliedrico, attento al nuovo, con una musica sempre, e profondamente, calata nel reale. Nato a Santo Amaro, nello stato di Bahia, Caetano si avvicinò alla musica con la scoperta di Joao Gilberto, la “voce” della bossa-nova, il musicista che definiva una nuova dimensione per l’interprete con un canto appassionante e rarefatto. Joao conquistò il giovane bahiano che proprio nella vitalità della tradizione, nel suo costante divenire, rintracciò la possibilità di arricchire la sua musica di ogni stimolo senza perdere il contatto con il passato.Il documentario che fa parte di una serie di cinque parti che commemora i 50 anni di Caetano Veloso tra cui lo spettacolo “Circuladô”. La serie è stata trasmessa dalla Rede Manchete nell’agosto del 1992. La serie è stata ricevuta dalla critica come la più importante produzione dell’anno.
Orfeu* Brasile
(Carlos Diegues, 1999, 110’)
Moderno adattamento della leggenda mitologica dell’amore tra Orfeo ed Euridice, già raccontato da Vinicious De Moraes con “Orfeu da Conceição” che ha ispirato anche il precedente film francese “Black Orpheus”. Ambientato nella Rio de Janeiro dei giorni nostri, Orfeo è un rinomato poeta e musicista, benvoluto da tutti, e stimato dalla sua comunità, la bidonville dove è cresciuto ai confini della città. La storia tra i due inizia durante il sabato di Carnevale, tra gli abitanti della favelas, povera gente la cui vita è segnata dalla violenza e dall’indigenza. Orfeo è leader del gruppo di Samba della sua comunità, Unidos da Carioca con cui prende parte alla parata/competizione che ha luogo nel Sambodromo e che rappresenta un’opportunità di riscatto per i più umili. Euridice è una candida ragazza proveniente dal Nord del Brasile in cerca della zia, ultima parente rimasta della sua famiglia. Appena si incontrano è amore a prima vista: Orfeo lascia la gelosissima Mira ma non possono godere del loro amore perché scoppia uno scontro tra la polizia e Lucinho, fraterno amico con il quale è cresciuto, adesso signore della droga e boss della favela. Uno dei momenti culminanti del film è la parata nel Sambodromo; grazie ad un montaggio “incrociato” di grande suggestione. Le musiche sono di Caetano Veloso
ORFEO NEGRO Brasile
(Marcel Camus, 1959, 110’)
Autista di tram a Rio de Janeiro, Orfeo (Bruno Mello), fidanzato con Mira (Lourdes de Oliveira), è considerato come una sorta di divinità grazie alla sua voce “che fa sorgere il sole..”. Durante la parata del Carnevale incontra Euridice (Marpessa Dawn), perseguitata da alcuni sicari; Orfeo si innamora perdutamente, cercando di proteggerla, ma la ragazza muore fulminata. Disperato, Orfeo ritorna alla favela con il corpo di Euridice.
Vincitore della “Palma d’Oro” al Festival di Cannes nel 1959, Oscar per il “Miglior Film Straniero”, ORFEO NEGRO propone il mito di Orfeu sui ritmi del samba del Carnevale di Rio. Il mix tra mitologia greca e tradizioni brasiliane funziona: Orfeo con la sua voce incanta la natura, la discesa agli inferi diventa una cerimonia sorvegliata dal cane Cerbero, Mira evoca una Ménade…
Tutte questi riferimenti non appesantiscono la narrazione, che si sofferma su una descrizione minuziosa e realista del Brasile. Gli attori e i danzatori professionali, notevoli nelle loro interpretazioni, ben rappresentano la popolazione delle favelas e la cinepresa cattura l’autenticità e la spontaneità delle tradizioni e dei colori locali.
ORFEO NEGRO ha sedotto il pubblico che gli tributato un successo internazionale.
XX RASSEGNA DEL FILM ETNOMUSICALE 2002
LA SODINA* Madagascar
(Camille Marchand, 1997, 18′)
Rakoto Frah, celebre suonatore di sodina, il flauto del Madagascar, e ambasciatore della cultura malgascia attraverso il mondo, ci incanta per la sua semplicità che ha in comune con il suo strumento. Sulle labbra del vecchio maestro, questo pezzo di bambù con qualche buco basta a fare di questo breve documentario un porto di serenità che contrasta con gli stridori del mondo occidentale. Dopo settant’anni, Rakoto Frah ha viaggiato per ventitré paesi con ciò che lui stesso definisce “il suo piccolo pezzo di bosco”. Nato nel quartiere popolare d’Isotry, Rakoto insegna ancora oggi ai bambini la fabbricazione e la pratica di questo strumento che ha cercato di perfezionare utilizzando l’eucalipto, la mimosa, il ferro, l’alluminio, il rame e addirittura la plastica. Noi siamo sicuri che il segreto del musicista stia nella scelta di bambù millenari. La sodina accompagna le cerimonie, le feste e i rituali quali la circoncisione, le feste nazionali, ma anche “il ritorno dei morti” che consiste nel rivestire i morti con un nuovo sudario. Così, con la musica, i morti riprendono vita e la danza dà gioia ai vivi…
EL ACORDEON DEL DIABLO* Colombia
(Stefan Schwietert, 2000, 90′)
Il film racconta la storia del grande vecchio uomo della musica caraibica, Francisco “Pacho” Rada. È il racconto di un cantore e compositore che ha preso l’organetto a quattro anni e non l’ha più lasciata. Un uomo che per tutta la sua vita ha viaggiato attraverso la Colombia, andando di villaggio in villaggio e di festa in festa, cantando e suonando per pochi centesimi. Adesso ha 93 anni e vive in una capanna di legno alla periferia di Santa Marta in Colombia. Il film inizia con Pacho Rada in viaggio lungo la costa caraibica della Colombia, navigando nel mondo dei musicisti e cantanti che sono cresciuti con Salsa, Cumbia e Vallenato. I confini tra sogno e realtà sono confusi nei racconti di Pacho Rada, così come nelle storie di Gabriel Garcia Marquez. La quotidiana lotta per sopravvivere in Colombia è presente in Pacho Rada tanto quanto lo sono le favole. Il film con il compositore entra in entrambi gli universi, esplorando un paese diviso tra la povertà e la violenza e contemporaneamente una fantastica quantità di leggende e di musica affascinante.
BEYOND THE FOREST* Turchia
(Gulya Mirzoeva, 1999, 52’/75′)
Il vecchio Hayri Dev, grande maestro dell’oboe e del üçtelli (un piccolo liuto a tre corde), vive a Tasavlu (sud-ovest Turchia). Una mattina decide di partire per un viaggio attraverso le montagne Çameli per andare a trovare un vecchio amico, Mehmet Sakir Akkulak, pastore e suonatore di violino, che vive a un giorno di distanza. Dopo aver trovato sulle montagne il suo amico, Hayri convince Mehmet a tornare a Tasavlu per celebrare il yarenlik. Un yarenlik combina una danza gioiosa con un’incredibile energia musicale. Lo spirito della giovinezza altera completamente questi due vecchi uomini, amanti della libertà.
POLYPHONIES ETHIOPIENNES* Etiopia
Chants Doko / Chants Hararis (Samson Ghiorghis e Guillaume Terver, 2001, 52′)
In Etiopia esiste un fenomeno totalmente sconosciuto che riguarda la pratica del canto polifonico nel sud del paese. Così per più di mille chilometri, dal Sudan alla Somalia, vivono più di cento etnie diverse che rappresentano quasi un terzo della popolazione etiopica e per le quali il canto polifonico riveste un’importanza fondamentale. Nel sud-est, per gli abitanti della città di Harar, i canti parlano di assenza e di memoria, di bambini partiti lontano come a porre riparo al dolore materno per la loro lontananza. Nel paese dei Dokos, nel sud-ovest, qualsiasi istante della vita è ritmato dai canti, a qualsiasi gesto quotidiano o avvenimento della vita della comunità è dedicato un canto. Attraverso i canti si evocano gli eroi mitici, i guerrieri che hanno affrancato i Dokos dall’autorità dei vicini, ma anche gli avi, gli antenati, come un rimando alla solidità del quotidiano. Allo stesso tempo opera comune e spazio vitale d’espressione individuale, traduce l’identità di questi uomini, donne e bambini e di ciò che essi portano come memoria, cultura, sentimento, religiosità…..
LES MILLE ET UNE VOIX* Tunisia, Egitto, India, Turchia, Senegal
(Mahmoud Ben Mahmoud, 2001, 90′)
Da Tunisi al Cairo, dal Radjastan a Istanbul, al Senegal, un pellegrinaggio alle sorgenti della musica islamica: l’universo mistico del sufismo, là dove l’Islam ha sviluppo il meglio della sua musica. Ritmi per le grandi feste del calendario musulmano, il film scopre l’intimità dell’apprendimento musicale e la trasmissione della sua eredità. Si scoprono i suoni dei tamburi, dei flauti di canna o dell’harmonium, la varietà di questa musica attraverso l’arte della cantillazione del Corano, le processioni religiose, le danze inebrianti dei Dervisci Rotanti, le cerimonie d’incantazione. Con la musica e i canti della confraternita dei Châdyhiliyyâ (Tunisia), Kudsi Ergüner e il suo gruppo (Turchia), le confraternite dei Qawwali e dei Rifai (India), la confraternita dei Hâmidiyya – Chaziliyyâ (Egitto), i Talibé, i Bayes Fall, gli Izbou (Senegal).
MÉMOIRES DU RAÏ* Algeria
(Djamel Kelfaoui & Michel Vuillermet, 2001, 52′)
Il Raï esplode in Algeria agli inizi degli anni ’80. Qualche anno più tardi le figure di punta di questo movimento musicale, Cheb Khaled, Cheb Mami, Chaba Fadela, partono alla conquista della Francia dove si impongono. L’Algeria si trova allora in un impasse nelle sommosse del 1988 e della loro eco sociale. Per la prima volta, il Raï, nato nel territorio oranese, osa esprimere con forza la miseria della vita, le aspirazioni della gioventù, ma anche l’ebbrezza dei sensi. Con la morte di Cheb Hasni, con le minacce che pesano sugli artisti e l’obbligo a esiliare, i terroristi pensano di trionfare ma durante questo periodo il Raï parte alla conquista del mondo, permettendo a dieci milioni di persone di capire meglio l’Algeria, un’Algeria straziata ma ben viva e più creativa che mai. L’Algeria, El Djezaïr, spirito della libertà ha donato al mondo in eredità per sempre il Raï.
NUSRAT : A VOICE FROM HEAVEN* Pakistan
(Giuseppe Asaro, 1999, 50’/83′)
Nato a Faisalabad, Pakistan, Nusrat Fateh Ali Khan è il cantante che ha reso la musica mistica del Sufi dell’India del nord e del Pakistan famosa in tutto il mondo. Nusrat è stato il primo e più importante artista a portare la musica devozionale Sufi, conosciuta come Qawwali a un nuovo livello di arte e di popolarità. La famiglia di Khan ha una tradizione di cantanti di Qawwali da 600 anni. Qawwali non esiste in nessun’altra parte del mondo se non nell’Asia del sud, specialmente in India e in Pakistan. Qawwali, combina elementi musicali e linguaggi perché tenta di raggiungere l’unità e costruire ponti tra i popoli, piuttosto che il conflitto e la violenza. Filmato in Pakistan e in America, “A Voice from Heaven” è un omaggio a una delle più belle voci del secolo. L’inizio del film introduce lo spettatore in un’atmosfera magica del Pakistan, spiegando la nascita del Qawwali, che ha un significato religioso e una tradizione lunga seicento anni. Il documentario poi segue la vita di Nusrat dalla nascita nel 1949 in Pakistan, nel villaggio di Lyallapur, oggi rinominato Faislabad, fino alla sua prematura morte a Londra in Agosto 1997. La storia combina le riprese dello spettacolo di Nusrat, sguardi dietro le quinte e le molte interviste fatte dalla moglie di Nusrat al Ministro della Cultura pakistano e agli artisti con cui ha collaborato Nusrat in alcune delle più innovative e originali registrazioni. Il film finisce con Rahat Fateh Ali Khan, il giovane nipote di Nusrat, continuatore della secolare tradizione.
ALI FARKA TOURÉ* Mali
(Yves Billon and Henri Lecomte, 1999, 52′)
Dalla chitarra elettrica al piccolo violino monocorde dei contadini songhay, l’arte di Ali Farka Touré è poliedrica. Una telecamera molto mobile segue il primo africano ad aver ricevuto un Grammy Award, il più prestigioso riconoscimento internazionale della musica. Dai concerti a Bamako ai culti di possessione dedicati ai “Geni del fiume”, passando per gli accampamenti tuareg nella città misteriosa di Tombouctou, si scoprono contemporaneamente, con il solo commento dello stesso Ali, la splendida regione del delta del Niger e una personalità di rilievo, che concilia una carriera di musica internazionale con quella di coltivatore nel suo villaggio.
LES BARDES DE GENGIS KHAN* Mongolia
(Nadine Assoune, 1998, 52′)
Ghan, un giovane ragazzo mongolo che vive con la sua famiglia nella steppa vicino a Ulan Bator, ha quasi tredici anni. Nato in una famiglia di bardi, è arrivato per lui il momento di essere iniziato alla tecnica del canto epico e diafonico e di studiare la storia della sua gente. Per completare i suoi studi, Ghan dovrà imparare a cavalcare un cavallo per partecipare al Nadaam, festa nazionale della Mongolia. Seguendo il percorso di Ghan dall’infanzia all’età adulta, attraverso i suoi occhi capiamo i valori fondamentali della cultura mongola, la storia epica di Gengis, e l’intimo legame con la natura. Scopriamo anche l’insuperabile canorità dei bardi di Gengis Khan.
LES BARDES DE SAMARKAND* Uzekistan
(Nadine Assoune, 2000, 52′)
Shaberdi Baltaev è un bardo molto celebre dell’Uzbeskistan. Fiero discendente della tribù del grande conquistatore Tamerlano che fonda Samarcanda, canta l’epopea dell’eroe leggendario Alpamish e rende così eterna una tradizione millenaria in Asia centrale. Attraverso il suo ritratto, il film ci conduce alla scoperta di una cultura misconosciuta e di un popolo felice di riscoprire, attraverso i suoi artisti, le sue radici e il suo patrimonio.
NJAGA MBAAY, LE MAÎTRE DE LA PAROLE* Senegal
(Laurence Gavron, 2001, 55′)
Njaga Mbaay è il più famoso griot del Senegal, è un monumento della cultura popolare wolof. È famoso in tutto il paese. Ha interpretato i cantanti più grandi. Da solo, senza accompagnamento strumentale o con lo xalam (strumento senegalese, una specie di chitarra a tre corde), la sua ruvida voce, riconoscibile da tutte le altre, è qualcosa di unico in Senegal. Interprete, autore e compositore, secondo coloro che conoscono le sue parole, Njaga è anche un filosofo, un uomo saggio che scrive testi di grande profondità. Parla della sua arte, della canzone, sua fonte d’ispirazione, del potere spirituale delle sue parole ma anche della funzione del griot e della cultura senegalese e in genere africana.
SALUZZI* Argentina
(Daniel Rosenfeld, 2000, 70′)
Dino Saluzzi è uno dei più famosi solisti di bandoneon (il bandoneon è una mescolanza di concertina e fisarmonica, uno strumento essenziale nel tango) l’affascinante pellicola di Rosenfeld inizia con il tour europeo del grande musicista e lo segue quando suona in città come Venezia, Parigi, Zurigo. Questo lungo e affascinate tour si integra con le riflessioni di Saluzzi sull’arte della composizione, sul suo passato musicale familiare, i suoi primi desideri di comporre e una visita al suo paese natale Camposanto a Salta, nord-est dell’Argentina. Il momento saliente del film è la brillante esecuzione di un brano che il musicista ha composto durante il tour e che suona insieme ai suoi tre fratelli. Saluzzi è un’esperienza indimenticabile per gli amanti del tango.
XXI RASSEGNA DEL FILM ETNOMUSICALE 2003
HELLHOUNDS ON MY TRAIL. THE AFTERLIFE OF ROBERT JOHNSON* Usa
(Robert Mugge, 1999, 95′)
Nel Settembre del 1998, la ‘Rock & Roll Hall of Fame’ di Cleveland ospitò per una settimana intera un tributo al leggendario musicista di Blues Robert Johnson, uno dei più enigmatici pionieri musicali in America. Robert Mugge documenta l’evento filmando le performances di artisti come Bob Weir con Rob Wasserman, Tracy Nelson con Marcia Ball e Irma Thomas, Peter Green con Nigel Watson, Roy Rogers e molti altri. Il film attua una selezione tra le numerose leggende che ruotano attorno al personaggio di Johnson – la più famosa è che “ha venduto l’anima al diavolo per diventare un maestro di Blues” – e i pochi fatti realmente provati della sua vita; dove sia morto o dove si trovi il suo corpo è tuttora un mistero. Ciò che rimane della sua controversa figura è una collezione di canzoni che hanno influenzato diverse generazioni di artisti: da Eric Clapton a Bob Weir, chitarrista dei Grateful Dead, molti sono i musicisti Rock e Blues presenti nel documentario che pagano tributo alla maestria di Johnson.
LAST OF THE MISSISSIPPI JUKES* Usa
(Robert Mugge, 2003, 85′)
Uno sguardo acuto sulle realtà, ormai in via di estinzione, delle juke joints, le sale da ballo dove circa 100 anni fa è nato il Blues, e sul loro significato come istituzioni culturali. La Subway Lounge, attiva da oltre 30 anni e celebre in tutto il mondo, è una delle poche juke joint rimaste in Mississippi e sulla quale il regista punta l’obiettivo. Con stimolanti performances di musicisti Blues e interviste ai loro fans, Mugge da’ vita ad un documento appassionato dedicato a tutti coloro che si sforzano di mantenere viva la tradizione delle juke joints, e della Subway Lounge in particolare. Situata nel Summers Hotel, il primo albergo di Jackson City (Mississippi) ad avere un proprietario nero, la Subway Lounge, è stata risparmiata dalla demolizione in quanto considerato edificio d’importanza storica. Il film è un viaggio musicale che partendo da Clarksdale (Mississippi), decantato luogo di nascita del Blues, approda al Ground Zero, moderna juke joint fondata dall’attore Morgan Freeman, che nel film parla della sua passione per il Blues e la necessità di preservare la tradizione di questi ritrovi. Mugge punta poi l’obiettivo su due bands del Subway Lounge: la King Edwards Blues Band e gli House Rockers. Oltre a ritrarre alcuni protagonisti quali Chris Thomas King, attore e musicista Blues, il bluesman Alvin “Youngblood” Hart, George Jackson, prodigioso autore di canzoni, Greg “Fingers” Taylor, leggendario suonatore di armonica, Bobby Rush, Patrice Moncell, Vasti Jackson e molti altri, il film include inoltre le discussioni tra musicisti e storici sulla trasformazione di queste leggendarie case di ritrovo, al cui interno il Blues è elemento fondamentale. Grazie alle immagini e alla musica, il regista cattura l’atmosfera, il senso di intimità, il patrimonio culturale lasciato in eredità dai juke joints.
SONNY ROLLINS: SAXOPHONE COLOSSUS* Usa
(Robert Mugge, 1986, 101′)
Brillante documento su uno dei più grandi sassofonisti di Jazz, ripreso in particolare durante uno dei suoi più intensi periodi creativi. Tra interviste a Rollins e alla moglie, a eminenti critici Jazz che analizzano il percorso artistico e la fenomenale carriera del sassofonista, il film evidenzia due sorprendenti performances: il quintetto di Rollins nel corso di un concerto svoltosi a New York, in un luogo all’aperto vicino a casa sua (dal cui palco si è gettato rompendosi una caviglia), durante il quale il musicista prende il ‘via’ con gli strabilianti assolo che lo contraddistinguono, e la prima mondiale in Giappone del “Concerto per Sassofono tenore e Orchestra”, dove Rollins è accompagnato dalla Yomiuri Nippon Symphony Orchestra di Tokyo, orchestra composta da 100 elementi e diretta da Heikki Sarmanto.
Un ritratto che propone l’unicità e la grandezza musicale di questo ‘colosso’ del Jazz, pari soltanto all’innata modestia che per l’”uomo” Rollins è radicato stile di vita.
SUN RA : A JOYFUL NOISE* Usa
(Robert Mugge, 1980, 60′)
Sun Ra – band leader, tastierista, compositore e mito di se stesso – ripreso mentre si esibisce e filosofeggia in mezzo a reperti museali dell’Antico Egitto; Sun Ra sul palcoscenico di Philadelphia con la sua Intergalactic Omniverse Arkestra, una grande Jazz band d’avanguardia con cantanti e ballerini dai costumi elaborati, che attraverso la musica, danze rituali e performances teatrali stabiliscono un ponte immaginario tra la Terra e Saturno, pianeta prescelto come ‘residenza’ della colorata comune. Il filmato di Mugge si snoda su diversi momenti girati a Philadelphia, a Washington e Baltimora sul più estroso degli artisti Jazz, carismatico personaggio la cui eredità continua anche dopo la sua scomparsa. Anche fuori dal palcoscenico Sun Ra enuncia le sue convinzioni solenni riguardo le vibrazioni cosmiche, la storia e la mitocrazia, rimanendo comunque e sempre un enigma.
“Sun Ra: A Joyful Noise” è un viaggio nel mondo di Sun Ra, nel Rap, l’Hip-Hop, il Jazz, con interessanti connessioni alla musica di Monk, Mingus, Pfunk, Funkadella.
DEEP BLUES* Usa
(Robert Mugge, 1991, 91′)
Nel 1990 il regista Robert Mugge e il famoso musicologo Robert Palmer hanno intrapreso un viaggio nel profondo cuore del Mississippi per scovare le più rappresentative figure di Blues del paese. Partendo da Memphis (Tennessee), hanno percorso le terre rurali dal nord del Mississippi alle juke-joints di Greenville, fino ai malfamati incroci di Bentonia, documentando le performances di artisti di talento spesso tagliati fuori dalle major dell’industria discografica. Nel loro pellegrinaggio Mugge e Palmer hanno incontrato e intervistato vere e proprie pietre miliari del Blues: Junior Kimbrough, R.L. Burnside, Big Jack Johnson, Roosvelt “Booba” Barnes, Lonnie Pitchford, Jessie Mae Hemphill, Jack Owens & Bud Spires, Booker T. Laury.
MUDDY WATERS : CAN’T BE SATISFIED* Usa
(Morgan Neville e Robert Gordon, 2002, 60′)
Film sulla vita del leggendario cantante e chitarrista Blues Muddy Waters, il cui lavoro ha avuto un’enorme influenza non solo sul Blues ma anche sul Rock inglese e americano per più di 40 anni. Realizzato dal musicologo e critico musicale Robert Gordon, autore di una biografia di Waters pubblicata di recente, il documentario getta uno sguardo sull’uomo, la sua musica e la sua durevole eredità. Diretto da Morgan Neville, che si è rapidamente dimostrato uno dei più importanti registi di documentari musicali in America, il film propone il riuscito assemblaggio di una vasta gamma di materiali d’archivio su Muddy Waters (concerti e interviste), alternati a testimonianze della sua famiglia, degli amici oltre ai contributi di alcuni luminari nel campo del Blues e del Rock, tra cui B. B. King, Keith Richards e Bonnie Raitt. Non si tratta di un’agiografia, piuttosto della significativa storia sulla vita di Muddy Waters, colui che ha “acceso” il Blues, elettrificandone la sonorità (Muddy è stato il primo ad esplorare le possibilità espressive degli strumenti elettrici); partendo dal Blues solistico ne ha allargato gli orizzonti adattandolo a formazioni più numerose senza perdere il feeling proprio del singolo musicista. È il primo documentario autorevole e ricco di aneddoti, sull’uomo che ha inventato il Blues elettrico aprendo la strada al Rock‘n Roll, sul bluesman che nel 1943 è saltato su un treno diretto a Chicago, rappresentando la migrazione dal rurale sud all’urbanizzato nord degli Afro-americani nel XX secolo. La sua canzone “Rolling Stone” ha ispirato il nome della famosa Rock band e della omonima rivista musicale. Bob Dylan, i Led Zeppelin, Jimi Hendrix, Jeff Beck e molti altri musicisti hanno riconosciuto il ruolo fondamentale di Muddy Waters e l’importanza degli elementi musicali sperimentati dalla sua chitarra già molto tempo prima.
STRANGE FRUIT* Usa
(Joel Katz, 2002, 57′)
“Strange Fruit” è il primo documentario che esplora la storia e l’eredità di Billie Holiday, attraverso la storia della canzone “Strange Fruit”; il filmato racconta una vicenda drammatica del passato americano usando, come suo fulcro, una delle canzoni di protesta più influenti mai scritte. Gli spettatori sperimentano il terrore del linciaggio proprio mentre viene evidenziato il coraggio e l’eroismo di coloro che hanno combattuto per la giustizia razziale, in un momento storico in cui farlo significava rischiare l’ostracismo e soprattutto, la vita.
Molta gente crede che “Strange Fruit” sia stata scritta da Billie Holiday stessa, mentre è nata come poesia di un insegnante ebreo originario del Bronx, attivista sindacale, che poi l’ha messa in musica. Infastidito dalla fotografia di un linciaggio, l’insegnante ha scritto sotto lo pseudonimo di Lewis Allan nel 1938, i durissimi versi e la triste melodia centrati sull’orrore del linciaggio. Il brano destò l’attenzione del direttore del Cafe Society, popolare night club al Greenwich Village, che presentò Billy Holiday all’autore della canzone. La casa discografica di Billie rifiutò di registrare la canzone, ma la cantante insistette finché non la incise con un’altra etichetta. La canzone divenne rapidamente l’inno del movimento anti-linciaggio e antirazzista. Il film include la sentita recitazione di Abbey Lincoln e una straordinaria performance di Cassandra Wilson, ma è la struggente interpretazione di Lady Day, che continuò a cantare “Strange Fruit” fino alla sua morte, avvenuta nel 1959, a rendere emozionante questo documento.
WILD WOMEN DON’T HAVE THE BLUES* Usa
(Christine Dall, 1989, 58′)
Il film mostra come il Blues sia nato al di fuori delle trasformazioni economiche e sociali della vita afro-americana all’inizio del secolo, mostrando la vita delle protagoniste della scena musicale del tempo: Ma Rainey, Bessie Smith, Ida Cox, Alberta Hunter, Ethel Waters e altre donne leggendarie che hanno reso il Blues parte vitale della cultura americana. Il documentario mette insieme per la prima volta una dozzina di rare e classiche interpretazioni del primo Blues.
Ciò che viene chiamato Blues può essere rintracciato nelle canzoni di lavoro di generazioni di schiavi e contadini Neri; Ma Rainey, “la madre del Blues”, per prima ha portato nel 1902 questo canto popolare su un palcoscenico, mentre altre come Ida Cox e Bessie Smith hanno fatto conoscere numerosi brani cantandoli durante i loro spettacoli on the road. Le blues-singers hanno fornito una continuità culturale per milioni di neri immigrati dal rurale Sud alle città industriali del Nord durante la Prima Guerra mondiale e la fama che alcune di queste donne riuscivano a conquistare, offriva loro una piccola protezione contro la segregazione e lo sfruttamento economico.
Con la Depressione, i gusti musicali si spostarono verso lo Swing decretando la morte del Blues classico, ma la sua eredità è tuttora imprescindibile per la musica di oggi.
NOI E IL DUCA. QUANDO DUKE ELLINGTON SUONO’ A PALERMO* Italia
(Ciprì e Maresco, 1999, 110’)
Un film sperimentale, a metà strada tra il documentario d’autore e il lungometraggio “di rigore” tipico dello stile degli autori di Lo zio di Brooklyn. La passione del jazz di Ciprì e Maresco attraverso “Cinico Tv” e Duke Ellington in un concerto a Palermo del luglio 1970. Immagini della performance live, false interviste ai personaggi di Cinico Tv, materiali rari sul Duca nero (quello bianco è Bowie…), conversazioni con Steve Lacy, grande sassofonista, Bill Russo, Bob Wilber, Hank Jones, Gunther Schuller. Un work in progress realizzato nell’arco di un decennio con grande passione e abilità.
MILES GLORIOSUS* Usa
(Ciprì e Maresco, 2001, 55′)
Il mondo di Miles Davis fuori dagli schemi consueti: attraverso le parole e la musica del trombettista, con concerti e interviste a musicisti italiani, con il contributo di musicologi ed esplorando il mondo del cinema, Ciprì e Maresco disegnano un ritratto sperimentale dell’eclettico jazzman, la cui arte trova inaspettate illuminazioni a contatto con quella dei due registi siciliani.
A NIGHT IN HAVANA* Cuba/Nigeria
(John Holland, 1988, 85′)
Il grande jazzista Dizzy Gillespie ha sempre avuto un amore musicale per Cuba, passione nata prestissimo. Per trent’anni le condizioni politiche hanno impedito a Gillespie di raggiungere l’isola, fino a quando è stato invitato a presenziare al “V° Festival Internazionale di Jazz” dell’Havana. “A Night in Havana” è la celebrazione di questo viaggio e della musica di Dizzy. Negli anni ’40 nasce il Bebop: Dizzy innesta i ritmi afro-cubani nel linguaggio jazzistico, creando un nuovo modo di fare Jazz che da questo incontro sarebbe stato influenzato per sempre. E il film analizza in particolare lo sviluppo della fusione tra l’esperienza afro-americana e quella afro-cubana. Nel corso della prima parte, il regista Holland esplora ‘Gillespie-uomo’ attraverso racconti che spaziano in un lungo arco di tempo, dalla sua infanzia nella rurale Sud Carolina, quando non gli era permesso di bere acqua dalle fontane pubbliche riservate ai bianchi, fino alla vera storia di come la sua tromba sia divenuta ricurva. La seconda parte del film è ambientata in Africa con riprese della visita alla sorella del grande percussionista afro-cubano Chano Pozo, e dell’appassionata e vivace danza del Folklorico Nacional; Gillespie parla della sua identificazione con l’Africa alternando racconti dei suoi tanti imprevisti di viaggio. La parte conclusiva è una sintesi di Gillespie-artista. Sebbene sia conosciuto soprattutto come inventore del Bebop (insieme a Charlie Parker e Thelonius Monk), il suo maggior contributo alla musica è stata l’introduzione dei ritmi afro-cubani nella musica occidentale e durante il finale, “A Night in Havana” presenta Dizzy che suona alcune delle sue più conosciute composizioni, tra cui “A night in Tunisia” e “Manteca”. «In 15 o 20 anni – racconta Dizzy – la musica del Brasile, di Cuba, delle Indie Occidentali e degli Stati Uniti si unirà. E io sarò là.»
CALLE 54* Cuba,Portorico, Spagna, Svizzera, Usa
(Fernando Trueba, 1999, 90′)
“Calle 54” è un documento eccezionale sulle memorabili performances dei musicisti che hanno dato vita al Latin Jazz, un filmato che cattura con la forza, l’energia e la passione pura di questi eccezionali artisti, per la prima volta tutti insieme in un unico film. Con una cinepresa discreta quanto impetuosa, Trueba lascia che la musica parli da sola. «Per me il film è un musical, un musical sulla musica, su come si crea e su come emerge, il suo plot o la sua trama sono i brani musicali scelti. I suoi protagonisti sono i musicisti». I protagonisti della pellicola sono maestri del genere: Bebo Valdès, il veterano, che si esibisce in un brillante duetto con il figlio Chucho (un mostro al pianoforte) e l’ancora veloce Cachao; il suono sinfonico della big band di Chico O’ Farrill; Michel Camilo con il suo impressionante trio, in questo film nella sua ultima esibizione, l’ultimo Tito Puente con il suo Golden Latin Jazz All Stars. L’occhio indagatore di Trueba cattura i musicisti in momenti affascinanti e sinceri come quando provano o discutono della loro arte trasmettendo tutta la dedizione e il coinvolgimento che provano per il Latin Jazz.
XXII RASSEGNA DEL FILM ETNOMUSICALE 2004
Ravi shankar. BETWEEN TWO WORLDS* India/Usa/Francia
(Mark Kidel, 2001, 89’)
Il documentario – frutto di due anni di riprese e prodotto dalla BBC – racconta la figura di Ravi Shankar, il leggendario compositore e suonatore di sitar, il più grande ambasciatore della musica indiana. Con sequenze uniche ed esclusive il regista Mark Kidel testimonia della grande umanità oltre che dell’abilità musicale di questa straordinaria figura della musica classica indiana, nato in una famiglia di brahmini nel 1920, trasferitosi giovanissimo a Parigi negli anni Trenta per esibirsi nella compagnia di danza del suo fratello maggiore. Nove anni dopo diventa allievo del grande musicista Baba Allaudin Khan: è l’inizio di una lunga e brillante carriera. Il ritratto di Mark Kidel è uno straordinario lavoro che cerca di ristabilire gli equilibri, iniziando con l’infanzia di Ravi a Benares, i suoi primi scontri con le celebrità nella Hollywood degli anni ’40, i suoi anni di studio del sitar e la conseguente fama in India, i suoi lavori con Satyajit Ray in “Pther Panchali” e le sue collaborazioni con Yehudi Menhuin, John Coltrane e innumerevoli altri grandi musicisti. Il ritratto è completato da una registrazione recente in cui Ravi Shankar suona con la figlia Anoushka e le immagini che riprendono il completamento della costruzione della Fondazione Ravi Shankar, l’ashram che il maestro ha sempre sognato. Una storia affascinante, raccontata con un abile uso di sequenze d’archivio e interviste a Ravi, che adesso ha 82 anni, la cui sconfinata passione per la musica rimane inalterata, come si evince dalle sue parole: “Dio è stato generoso con me. Il viaggio spirituale nella musica è l’unica cosa che è stata veramente importante nella mia vita”.
THE SPEAKING HAND* India
(Sumantra Ghosal, 2003, 2×52’)
Ritratto di Zakir Hussain, il più grande esponente delle percussioni classiche indiane, le tabla. Figlio del maestro delle tabla Ustad Alla Rakha, Ustad Zakir Hussain inizia la sua carriera di musicista prestissimo come un bambino prodigio. Dopo essersi cimentato in diversi esperimenti che conciliavano linguaggi musicali indiani e occidentali, oggi è noto sia come compositore che come musicista. Il film racconta la crescita di Zakir dalle strade di Bombay fino alla sua attuale fama mondiale di musicista. Nel corso della sua eccitante storia si viene a contatto con l’incredibile magia delle sue dita. Lo vediamo suonare con moltissime leggende del mondo indiano. Lo sentiamo spiegare le difficoltà delle tabla. Vediamo rare apparizioni nel Placet Drum tour che lo ha visto suonare insieme ai più grandi maestri percussionisti in una celebrazione mozzafiato del mondo del ritmo. Sequenze d’archivio di concerto nel film sono collegati con affascinanti e rare interviste di leggende del mondo e della musica indiana e occidentale, come Ustad Alla Rakha, Ravi Shankar e Mickey Hart.
JE CHANTERAI POUR TOI (BOUBACAR TRAORE’* Mali
(Jacques Sarasin, 2001, 76’)
Negli anni ’60, la gente del Mali si svegliava ogni mattina al suono della voce di Boubacar “KarKar” Taorè alla radio, che cantava l’indipendenza. Tutti in Mali ricordano di aver ballato sui suoi successi. Ma da quando la sua musica era suonata solo alla radio, non guadagnava abbastanza soldi per vivere e dovette smettere di suonare per lavorare come sarto e come commerciante per nutrire la sua famiglia. Qualche anno dopo, ebbe un brutto colpo: la morte della moglie, Pierrette. Disorientato, KarKar partì per la Francia, lavorando nell’edilizia e cantando nel weekend nei rifugi parigini per immigrati, che sono adesso la sua casa. In Mali, tutti pensavano che KarKar fosse morto. Anni dopo, un produttore musicale ha trovato una sua vecchia registrazione….
BIRD NOW* Usa
(Marc Huraux, 1987, 90’)
Ci sono due personaggi principali nel documentario. Uno è Charlie “Bird” Parker il leggendario jazzman la cui turbolenta carriera viene raccontata nel film, evocando la musica jazz dell’America nera negli anni’40, un grido di lotta contro la segregazione razziale, le vessazioni della polizia e i pericoli che si nascondono dietro l’effimera via di fuga dell’alcool e delle droghe pesanti. L’altro personaggio principale è la città di New York, anche lei un mito. Il film è girato nella New York di oggi in tutti i suoi aspetti: da Harlem al Bronx, da Bowery a Brooklyn, nel tumulto che regna tra la città e i suoi ghetti. Nella fluidità del jazz stesso, la realtà del film documentario è intramezzata da sequenze di fiction. Charlie Parker parte da Kansas City a Chicago con una valigia e un sax e arriva a new York con un clarinetto e una reputazione. Harlem era il luogo dove accadeva tutto, era il tempo di Dizzy Gillespie, Thelonius Monk e Charlie Parker. Era il momento di una nuova musica: il bebop.
Francisco Sánchez-Paco de Lucía* Spagna
(Daniel Hernández, 2001, 94’)
Ritratto di uno dei più grandi geni mondiali della chitarra. Il documentario di Daniel Hernàndez conta sull’esclusiva partecipazione di Paco de Lucìa – il cui vero nome è Francisco Sánchez – che vive in Messico. Per la prima – e ultima volta, come lui dice – il musicista apre la porta di casa sua, il suo vero luogo privato e intimo, a una troupe cinematografica, dando così la possibilità di venire filmato mentre pesca, cucina, mentre è al mercato o con gli amici. Francisco Sánchez –l’uomo privato-, e Paco de Lucía –la star-, sono due persone in una. La vita dell’artista è una continua fluttuazione tra queste due persone e il documentario è strutturato intorno alle due vite di quest’unica persona. Da una parte, ci viene presentata la visione molto intima di questo mito della chitarra del flamenco, con le testimonianze della su famiglia e dei suoi vecchi amici, alcuni dei quali altri importanti musicisti come Chick Corea. Dall’altra parte il documentario costituisce un importante film musicale, riprendendo la sua ultima tournée in Europa, diversi concerti e interviste con altri chitarristi rimasti affascinati da lui e sui quali lui ha avuto una forte influenza, come Vicente Amigo, Tomatito o Juan Manuel Cañizares. Il film comprende anche molte immagini d’archivio, per esempio alcune in cui Paco de Lucia suona con Camarón de la Isla, Al Di Meola o John Mc Laughlin.
BREAKING THE SILENCE: MUSIC IN AFGHANISTAN* Afghanistan
(Simon Broughton, 2002, 60’)
Sotto il regime talebano in Afghanistan gli strumenti musicali sono stati distrutti e bruciati. L’unica musica permessa era quella di accompagnamento ai canti talebani. Il documentario racconta appunto il ritorno della musica a Kabul dopo il crollo del regime talebano e ritrae, fra le altre cose, il primo concerto nella città fuori dai bombardamenti. I talebani non sono stati i primi ad attaccare la cultura musicale in Afghanistan; i comunisti hanno liquidato Ahmed Zahir, soprannominato l’”Elvis afgano”, e bandito le donne cantanti. Attraverso i ritratti di alcuni musicisti afgani, il film descrive le condizioni della musica in Afghanistan durante gli ultimi 20 anni.
UMM KULTHUM: A VOICE LIKE EGYPT* Egitto
(Michael Goldman, 1996, 67’)
Narrato da Omar Sharif, il film è il primo documentario fatto per celebrare la diva del mondo arabo al pubblico americano. Riempito con spezzoni di concerti, aneddoti coloriti e sequenze di film tratte da film classici egiziani su Umm Kulthum, il documentario di Goldman posiziona la vita e la carriera di Umm Kulthum nel contesto della storia egiziana del XX secolo. La macchina da presa esplora la straordinaria attrattiva che esercitava sugli ascoltatori, facendoci entrare nel suo villaggio nel Delta del Nilo e nei caffè, nei mercati e nelle strade del Cairo, dove lei viveva e lavorava. Dal premio Nobel Naguib Mahfouz alla ragazzina dodicenne di un ristorante all’aperto, tutti parlano dell’importanza della musica di Umm Kulthum nella loro vita, cantano le sue canzoni davanti alla macchina da presa; il suo ricordo è ancora vivo e la sua persona rimarrà a lungo leggendaria.
KUDSI ERGUNER* Turchia
(Ovidio Salazar, 2000, 19’)
Il film è un ritratto del musicista turco Kudsi Erguner. Originario di una famiglia di musicisti, Kudsi Erguner è il più grande suonatore di ney (flauto di canna). Formatosi con gli insegnamenti di suo padre, Ulvi Erguner, uno degli ultimi grandi maestri di questo strumento, hanno inciso profondamente nella sua formazione artistica e professionale i contatti con molti musicisti famosi della vecchia generazione che frequentavano la casa dei suoi genitori, ma, soprattutto, gli insegnamenti musicali e spirituali derivanti dalla sua partecipazione alle confraternite sufi, come i Dervisci Mevlevi (conosciuti in Occidente come ‘dervisci rotanti’). Erguner ha anche registrato numerosi album e ha collaborato con artisti del calibro di Peter Gabriel e Peter Brook, dando un contributo determinante alla World Music.
FEMI KUTI, “what’s going on?”* Nigeria
(Jacques Goldstein, 2001, 52’)
Il documentario è il ritratto del musicista Femi Kuti e di un suono, l’afro beat, la musica moderna della Nigeria, uno dei più grandi paesi dell’Africa, sia per popolazione che per grandezza, e più precisamente di Lagos, metropoli che condensa ricchezza, povertà, violenza e corruzione. Femi è il figlio di Fela Kuti “il presidente nero”, creatore del genere musicale negli anni ’70, colui che ha gettato le basi di una musica africana urbana e rivendicativa, contemporanea del reggae e dell’hip hop. Quando Femi era in carcere, è stato il figlio Fela a mantenere attiva la band. A distanza di pochi anni dalla morte del padre, Fela Kuti ha intrapreso una carriera per proprio conto; in lui non si ritrova la vena polemica e caustica del padre, in compenso il sax parla per lui.
“YOU, AFRICA !” (Youssou N’Dour)* Senegal
(N’Diouga Moctar Ba, 1994, 43’)
Da quando è emerso nel panorama musicale internazionale nel 1983, Youssou N’Dour è diventato non solo il più noto artista africano, ma uno dei protagonisti del fenomeno della world music. Ma bisogna andare in Senegal per capire quanto sia stimato e apprezzato da tutti, ed è per questo che la macchina da presa lo segue costantemente durante il suo tour in Africa Occidentale. Youssou è la figura simbolo del genere musicale mbalax, un misto di ritmi tradizionali, eseguiti sui tamburi sabar e il ‘tamburo parlante’ tama, e sonorità pop occidentali. Oggi, Youssou N’ Dour è il musicista africano più conosciuto dal pubblico del pop-rock, grazie anche alle sue collaborazioni con personaggi come Peter Gabriel, Paul Simon, Sting e Neneh Cherry.
REBEL MUSIC. THE BOB MARLEY STORY* Giamaica
(Jeremy Marre, 2001, 89’)
Un intrigante ritratto della vita e dell’opera di Bob Marley, la cui potente musica e la cui personalità hanno portato la cultura giamaicana sulla ribalta internazionale. Il film guarda dentro la situazione politica e gli eventi storici che hanno dato forma alla sua personalità artistica durante i primi anni in Giamaica. Il film mostra anche le tensioni nei Carabi che incidono sulla presa di coscienza e sulla situazione politica in Giamaica, i movimenti per la libertà dell’Africa e il movimento rastafari con i suoi legami storici e spirituali con la madrepatria. Segue l’evoluzione della musica di Marley attraverso la sua lotta per irrompere nel business della musica e la sua crescita nelle celebrità con l’etichetta Island Records, quando ha sviluppato la sua distintiva forma di musica reggae con il suo messaggio che ha riverberato in tutto il mondo. Le sequenze filmiche di Marley, alcune delle quali mai viste, includono anche alcune riprese fatte in casa in Giamaica, le prime registrazioni in studio, interviste riscoperte di recente, sequenze di concerti.
The Harder They Come con Jimmy cliff Giamaica
(Perry Henzell, 1973, 107’)
Da quando è uscito, nel lontano 1973, questo film di fiction è diventato un cult movie per tutti i cultori del reggae. Jimmy Cliff interpreta Ivan O. Martin, un personaggio ispirato ad un fuorilegge degli anni Cinquanta di nome Ivanhoe Martin, meglio conosciuto come Rhygin. Come molti giovani giamaicani, Ivan decide che la vita di campagna non fa per lui e va in città con l’intenzione di diventare una star del reggae. Una volta arrivato nella caotica città di Kingston, si trova come un pesce fuor d’acqua. Viene derubato e si trova a vagare per le strade della città senza soldi e senza lavor, finché trova alloggio presso un severo predicatore che lo ingaggia come ladruncolo. Una relazione proibita con la figliastra Elsa ed un litigio con accoltellamento lo portano nuovamente sulla strada, ma non prima di aver messo piede in uno studio di registrazione per un’audizione. Dopo aver inciso il suo primo disco, Ivan si scontra con la dura realtà dell’industria discografica: nonostante la sua canzone sia diventata un successo, Mr. Big Shot Producer (Robert Charlton) lo paga solamente 20 dollari. Ma la sua ambizione di diventare un famoso cantante è troppo forte….. In parte neo-realista, in parte spaghetti western, The Harder They Come è un film ambiguo, drammatico e divertente, sempre attuale.
XXIII RASSEGNA DEL FILM ETNOMUSICALE 2005
MORO NO BRASIL* Brasile
(Mika Kaurismaki, 2002, 105’)
Road movie di oltre 4.000 chilometri firmato dal finlandese Mika Kaurismaki. Il regista, fratello del famoso Aki, autore di “L’uomo senza passato”, si cimenta in un viaggio all’interno delle tradizioni musicali del Brasile: un percorso etnoculturale tra i vari stili che hanno reso la musica di questo paese tra le più conosciute e apprezzate nel mondo. Un bel documentario che ha alla base il concetto di musica quale parte irrinunciabile dell’essere umano, quale vero e unico linguaggio universale. Ma la musica è anche il DNA di una nazione e di un popolo. Quella brasiliana è una musica giocosa e triste allo stesso tempo, capace di mostrare al mondo l’allegria di un popolo ma anche di testimoniare secoli di colonizzazioni e sottomissioni. Magica conseguenza di quel sincretismo fra culture e religioni diverse, la musica del Brasile ha le qualità per raggiungere il cuore di chiunque, anche se lontano migliaia di chilometri, anche se distante per cultura ed estrazione geopolitica. Il viaggio si snoda tra Pernambuco, Bahia, Rio de Janeiro, dove si possono apprezzare i generi più diversi: non solo il samba ma anche l’embolada e il forrò, il frevo e il maracutu. Fra i molteplici interpreti si ascoltano il Grupo Fleetwtxya Tavares da Gaita, Children Fulni, Grupo Fethxa e Band Fulni.
MUSICA CUBANA* Cuba
(German Kral, 2004, 88’)
Un appassionato percorso dentro la musicalità caraibica. Il regista German Kral prende come pretesto narrativo del suo viaggio nella musica cubana Barbaro, tassista dell’Avana appassionato di musica e delle diverse sonorità cubane. Un giorno, casualmente, incontra il maestro Pio Leiva, star del Buena Vista Social Club. I due diventano amici e decidono di mettere su una banda con i migliori giovani musicisti di Cuba sotto la direzione del maestro. Il film accompagna i musicisti durante le prove e le registrazioni di classici cubani ma documenta anche la ricerca di canzoni nuove e di un proprio stile come band. Tutto finisce con un grande concerto a Tokyo, dove nasce la band The Sons of Cuba. Un viaggio non solo nella musica ma anche nella vita di tutti i musicisti: un connubio tra cinema e musica per indagare la vita nell’isola di Cuba, attraverso i suoni e gli occhi dei suoi musicisti, che davanti alla telecamera parlano di musica e di come siano nati gli innumerevoli ritmi, stili e accenti della musica cubana. Dopo “Buena Vista Social Club”, Wenders lascia la cinepresa ad un nuovo regista, supervisionando comunque il lavoro: una sorta di documentario che fa vedere come musicisti di diversa estrazione musicale possano convivere in una stessa band, amalgamando, sotto la guida vigile di Pio Leiva, i diversi generi.
FELA KUTI: LA MUSICA E’ L’ARMA* Nigeria/Francia
(Stephane Tchal-Gadjieff, Jean Jacques, 1982, 53’)
Fela Anikulapo Kuti è per la musica africana quel che Bob Marley è per il reggae: il suo profeta. Tutte le forme di musica nera contemporanea (dal funk all’elettronica) hanno un debito nei confronti dell’irresistibile groove dell’afro–beat. Durante la sua vita, Fela non ha cessato mai di incidere, registrando più di 60 album. Nato nel 1938 si trasferì a Londra nel 1957, dove formò il suo primo gruppo. Tornato in Nigeria nel 1963 iniziò a sperimentare un nuovo stile musicale che mescolava il jazz, il soul ed il funk di James Brown e venne appunto chiamato afro–beat. Presto Fela divenne famoso anche per le sue dichiarazioni sull’uso delle droghe, il sesso, la religione e la critica al regime militare nigeriano, incarnando i sogni e la passione con cui intere generazioni di africani hanno combattuto e combattono ogni giorno la loro battaglia per la reale indipendenza del paese e per uno sviluppo equo e democratico. Negli anni settanta Fela Kuti realizzò più di 30 album con liriche sempre più incisive contro le autorità governative e per questo venne imprigionato e torturato. Per gran parte della sua carriera ha combattuto contro la corruzione politica e la brutalità del regime autoritario e dittatoriale del suo paese, finché è morto di Aids nel 1997, all’età di 58 anni.
ALI FARKA TOURE’* Mali
(Marc Huraux, 2001, 93’)
Il regista francese Marc Huraux è partito per incontrare il chitarrista, cantante e compositore maliano, Ali Farka Touré nel suo villaggio presso Timbuctu. Chitarrista autodidatta, suonatore del njarka (viella monocorde), ha adattato i brani tradizionali maliani alla chitarra elettrica ed è spesso comparato con John Lee Hooker, Lightnin’ Hopkins o Big Joe Williams per essere il creatore del blues maliano. Marc Huraux segue il musicista, che oggi ha 63 anni, nel suo villaggio di Niafunké dal 1999. Ali Farka Touré è il primo africano ad aver ricevuto un Grammy Award, il più prestigioso riconoscimento internazionale della musica. Nel 1950 iniziò a suonare il gurkel, chitarra monocorde africana, che scelse per la sua capacità di richiamare gli spiriti e apprese anche l’uso del n’jarka, un piccolo violino monocorde. Nel 1956, ebbe l’opportunità di assistere a Bamako al concerto del grande chitarrista guineano Keita Fodeba. Ne fu talmente colpito che decise allora di diventare un chitarrista. Completamente autodidatta, Touré adattò i canti tradizionali usando la tecnica del gurkel traendo ispirazione dal chitarrista John Lee Hooker. Un documentario che ci porta alla scoperta di questo quasi leggendario personaggio, che concilia una carriera di musicista di livello internazionale con quella di coltivatore nel suo villaggio.
BRASIL: LA rivoluzione TROPICALISTA* Brasile
(Yves Billon & Dominique Dreyfus, 2002, 52’)
C’è nella storia della musica brasiliana un movimento musicale a parte, che appare allo stesso tempo come testimone e come attore della storia: il Tropicalismo, la cui esplosione è stata tanto effimera quanto incisiva dal momento che i suoi effetti perdurarono nel tempo. Un movimento che ha scombussolato in un solo anno d’esistenza (dal novembre del ‘67 al dicembre del ‘68), tutta la fisionomia della musica brasiliana, in un momento in cui emergevano le contraddizioni di un periodo particolarmente agitato. Con un impatto simile a quello del Maggio del ‘68 in Francia, di cui fu in un certo modo la versione brasiliana, il Tropicalismo mise in discussione le fondamenta stessa della società urbana, agendo come un detonatore, come il catalizzatore di una vera rivoluzione dei costumi, della mentalità e della idea stessa di identità brasiliana. Queste ‘perturbazioni’ marcarono definitivamente la cultura nazionale e contribuirono a far precipitare il corso degli eventi che caratterizzarono uno dei capitoli più sinistri della storia del paese.
AMANDLA!: UNA RIVOLUZIONE IN ARMONIA A QUATTRO PARTI* Sudafrica/Usa
(Lee Hirsch, 2002, 103’)
Vincitore dell’Audience Award e Freedom of Expression Award al Sundance Film Festival del 2002, il film narra la storia della musica di liberazione dei Neri del Sudafrica e ne sottolinea il ruolo centrale nella lunga lotta contro l’apartheid. È il primo film che considera la musica come elemento che ha sostenuto e galvanizzato i Neri sudafricani per più di 40 anni. Il documentario focalizza l’attenzione sulla dimensione spirituale della lotta di liberazione, che ha preso forma attraverso la canzone. Un ritratto espressivo della vita sudafricana di allora e di oggi, un documento diverso da ogni altro film già realizzato sull’apartheid. Il film sfrutta il potere sia visivo che sonoro del cinema per creare una potente ed emozionante esperienza di visione. La fotografia vivida e dai colori intensi fluisce come una canzone, completando una narrativa innovativa che combina spezzoni originali, numeri musicali mozzafiato, pezzi d’archivio indimenticabili per celebrare la capacità di recupero dello spirito umano attraverso i lunghi decenni di lotta per la libertà in Sud Africa. Girato in Sud Africa nell’arco di nove anni, il film dà risalto a interviste con uomini che parlano della loro esperienza di lotta e di musica: il film porta sullo schermo molte canzoni di libertà, riproponendole da registrazioni originali intramezzate da performance dal vivo di famosi cantanti sudafricani e di musicisti sconosciuti. Uno straordinario viaggio nella realtà della vita durante l’apartheid.
QUANDO GLI SPIRITI BALLANO IL MAMBO* Cuba
(Marta Moreno Vega & Robert Shepard, 2002, 90’)
Il documentario mette in luce l’impatto delle religioni afrocubane nella società civile di Cuba. Una sopravvivenza culturale e storica originaria dell’Africa occidentale che ha mantenuto molti dei suoi tratti originari a Cuba. La pellicola focalizza l’attenzione sull’influenza della musica rituale afrocubana e sulla sua eredità nella musica popolare, attraverso la voce e la musica di artisti appartenenti alla sfera musicale tradizionale, popolare e contemporanea. 90 minuti di riprese che danno una visione completa della ricca tradizione sacra delle varie pratiche africane che sono state inglobate e rivitalizzate a Cuba, indagando l’impatto che hanno avuto nella società civile, nella vita artistica popolare e contemporanea. Includendo i sacerdoti e le sacerdotesse, studenti e musicisti di musica tradizionale e popolare il documentario narra e celebra la vitalità della tradizione sacra. Fra i gruppi musicali ci sono Yoruba Andabo e Clave y Guaguanco, Estrellas Cubana, Anonimo Consejo, Los Munequitos e altri. C’è poi Orlando “Puntilla” Rios, il celebre percussionista di bata, che conversa con il maestro percussionista ChaCha a Matanza. Scene anche dal Balletto Folklorico Nazionale di Cuba e dal Carnevale di Santiago di Cuba.
UN’ORMA DEL LEONE* Sudafrica
(Francois Verster, 2002, 55’)
Il documentario ci conduce in un sorprendente viaggio musicale attraverso il Sud Africa e gli Stati Uniti, con immagini inedite dei Ladysmith Black Mambazo, dei Manhattan Brothers, di Pete Seeger. Il filmato rivela come Solomon Linda, il musicista zulu che compose “Mbube”, la più popolare canzone africana, sia morto in miseria mentre altri continuano a macinare lauti guadagni con gli arrangiamenti della canzone: Solomon Linda compose “Mbube” negli anni ‘20 e la registrò nel 1939; qualche anno dopo Pete Seeger, cantante folk americano, sentì la canzone e cambiò il nome in “Wimoweh”, facendone una nuova versione con The Weavers. La canzone fu poi nuovamente ripresa e diventò la famosissima canzone pop “The Lion sleep tonight”. L’apartheid negò ai neri sudafricani il copyright sui loro lavori e così Solomon Linda morì povero all’inizio degli anni ‘60. Oggi sua figlia vive a Soweto combattendo con i proprietari del copyright per i diritti di suo padre. Un giornalista sudafricano, Rian Malan, che appare nel film, continua ad interessarsi della loro causa nei confronti dei media. Il lavoro di Verster inizia nel 1999 quando una tv del Sud Africa gli chiede di fare un film sulla canzone. Mentre esplora le questioni morali e legali intorno alla canzone, il film è anche un vibrante e gioiosa celebrazione dell’eredità della musica africana.
THE BLUES: DAL MALI AL MISSISSIPPI* Mali/Usa
(Martin Scorsese, 2003, 1h.23’)
Il regista cult Martin Scorsese passa dalle sponde del fiume Niger in Mali ai campi di cotone ed ai locali (juke joint) del Delta del Mississippi per trovare le tracce dell’origine del blues in una poetica combinazione di interpretazioni originali (tra cui Ali Farka Tourè, Salif Keita, Habib Koitè, Taj Majal, Othar Turner) e rare immagini di repertorio: un viaggio alla ricerca delle radici della musica americana e non. Voce narrante e guida del film è Corey Harris, giovane musicista blues e grande conoscitore di questo genere. Harris passa in rassegna un secolo di cultura afro americana attraverso filmati di repertorio, interviste ai protagonisti e jam sessions estemporanee. E così scorrono davanti ai nostri occhi, e dentro le nostre orecchie, personaggi “leggendari” come Robert Johnson, Muddy Waters, Leadbelly, John Lee Hooker, e personaggi meno conosciuti quali Son House, Skip James o Otha Turner, un flautista straordinario al quale il film è dedicato. Un percorso che finisce sulle rive del Niger che porta a scoprire come la maggior parte della musica che oggi ascoltiamo derivi proprio da lì e dalle sonorità africane.
XXIV RASSEGNA DEL FILM ETNOMUSICALE 2006
IBERIA* Spagna
(Carlos Saura, 2005, 99’)
“Iberia” è un intenso viaggio nel cuore del flamenco e insieme una celebrazione appassionata di questa disciplina nella sua accezione più alta; come un mosaico, mostra un’esibizione di abilità coreografica nel famoso ballo parallelamente a musica classica, al balletto e alla danza contemporanea. Carlos Saura, regista spagnolo di fama mondiale, si è circondato dei più grandi talenti suoi conterranei, riuscendo a fare emergere dagli artisti coinvolti il meglio di sé.
Ispirato al lavoro del compositore spagnolo Isaac Albéniz (1860-1909), “Iberia” è un film che integra in maniera unica le componenti di un musical, con la cinepresa del regista che si trasforma in un artista tra gli artisti condividendo la preparazione, le prove e la gestazione graduale di ogni rappresentazione. Saura, con il suo tocco magistrale, presenta così un universo drammatico e commovente, un mondo di passione e creatività.
EL MILAGRO DE CANDEAL* Brasile
(Fernando Trueba, 2004, 131’)
Bebo Valdés, famoso pianista cubano di 85 anni che vive esiliato a Stoccolma da oltre 40, compie un viaggio a Salvador di Bahia, la più “nera” tra le città brasiliane, alla ricerca delle sue origini africane. Alla Igreja Nosso Senhor do Rosario dos Pretos (chiesa costruita dagli schiavi africani) e incontra Mateus Aleluia, chitarrista afrobrasiliano ultrasessantenne, che gli illustra la cultura e la religione afrobrasiliana, il candomblé con gli orixàs e i riti a questi legati.
Insieme poi si dirigono a Candeal, favela devastata dalla droga e dalla povertà che grazie agli sforzi del percussionista Carlinhos Brown, che qui è nato, e di alcuni altri sostenitori, è riuscita a bandire armi e delinquenza diventando una comunità ‘magica’; il volontariato e il lavoro collettivo dei suoi abitanti hanno dato vita alla prestigiosa scuola popolare di musica “Pracatum”, che dal 1994 ha richiamato ad insegnare giovani musicisti provenienti da ogni parte del Brasile, ai quali Valdés si unisce in una straordinaria jam session di musica e ritmi cubani e brasiliani. Oltre ad un centro di sanità popolare, al Candeal è nato anche uno studio di registrazione nel quale vengono ad incidere musicisti da tutti i continenti, attratti dall’atmosfera, dai tamburi e dalle altre percussioni della famosa sezione ritmica del posto.
Nel corso del suo viaggio, Bebo incontra anche altri artisti bahiani, in particolare Marisa Monte e Caetano Veloso che canta alcune delle sue canzoni più belle.
Il regista spagnolo Fernando Trueba (autore anche del pluripremiato “Calle 54”) racconta la storia di una ‘miracolosa’ trasformazione sociale: attraverso immagini sulla realtà della favela, dei suoi abitanti e sul potere di redenzione della musica, “El Milagro de Candeal”, in parte documentario, in parte parabola cinematografica, evidenzia le diverse sonorità che costituiscono l’accompagnamento musicale della vita quotidiana, dove il samba si amalgama al ritmo dell’arrasta-pe e del frevo (stili tipici della regione) e i ritmi brasiliani rivelano le numerose assonanze con la musica cubana. Attraverso la musica e le molteplici iniziative ad essa legate, la gente di Candeal ha recuperato la propria autostima e la speranza che la realtà si può cambiare, che un mondo migliore è possibile…
Carmen a Khayelitsha* Sudafrica
(Mark Dornford, 2005, 120’)
“U-Carmen e Khayelistsha”, versione cinematografica dell’opera lirica “Carmen” di Bizet, si è aggiudicata l’”Orso d’Oro” al Festival di Berlino 2005; un premio a sorpresa con il quale il regista inglese Mark Dornford-May ha battuto pellicole ben più favorite quali “The Sun” di Sokurov, sull’imperatore Hirohito, e “Sometimes in April” sul genocidio in Rwanda. Eppure la scelta è condivisibile, non fosse altro per l’ardita discesa in una township sudafricana senza mai dimenticare gli stilemi artistici del genere operistico. La storia della donna fatale e irresistibile ambientata nella zona più povera di Siviglia, assume toni di universalità in questa trasposizione sudafricana.
La “femme fatale” che mette in subbuglio cuori e sensi è grande e grossa, splendida e nera, fuma il sigaro, e Siviglia è diventata la città sudafricana di Khayelitsha; compaiono gangster e santoni e le popolarissime arie della “Carmen” originale sono cantate con i suoni aspri e remoti della lingua Xhosa (secondo idioma ufficiale in Sudafrica dopo lo Zulu). Questo lo strano cocktail che Mark Dornford-May ha diretto per oltre cinque anni a teatro con alterni successi, fino alla trasposizione cinematografica che ha messo d’accordo critica e pubblico, sia per il fascino che per i contenuti sociali che la caratterizzano: la sensazionale protagonista, Pauline Malefane (nella realtà poi sposata dal regista) dalla voce e la presenza poderose, interpreta il mito di Carmen con una forza del tutto innovativa, facendosi paladina del progresso sociale che le donne nel Sud Africa democratico stanno faticosamente conquistando.
HABANA BLUES* Cuba
(Benito Zambrano, 2004, 120’)
Dopo il successo del suo primo film “Solas”, il regista spagnolo Benito Zambrano riprende in mano una delle prime sceneggiature e realizza una commovente ‘canzone’ dedicata a Cuba e alla sua popolazione; un film in cui la musica racconta l’anima dell’isola e dei suoi protagonisti, divisi da un imprescindibile amore per la propria terra e un altrettanto indomabile desiderio di varcarne i confini e vedere il resto del mondo.
Ruy e Tito sono due giovani musicisti cubani, uno dei quali con due figli ma in fase critica con la moglie, che suonano insieme e condividono un grande sogno: quello di diventare famosi e lasciare l’Havana. L’occasione della vita si presenta con l’arrivo di due produttori discografici spagnoli che propongono loro di incidere un disco…
Presentato a Cannes nel 2005, “Habana Blues” è un film che rifugge i clichè sulla Cuba da cartolina, tutta spiagge, balli e storie d’amore tra mulatte e stranieri in vacanza, mostrando piuttosto lo snodarsi di relazioni umane, di sentimenti, con le paure e i desideri di ogni esistenza. E la musica è tra gli elementi portanti della pellicola, quella musica che permette ai cubani di andare avanti con spensieratezza nonostante le difficoltà da affrontare e, come in questo caso, mette i protagonisti davanti a decisive scelte di vita.
Ma il pregio di “Habana Blues” è anche quello di mostrare l’altra faccia musicale di Cuba, la più alternativa, con gruppi Pop, Hip Hop, Reggae e Heavy Metal che danno vita ad un “Rock fusion” ben integrato alle sonorità più ‘classiche’ dell’isola, con ogni sobborgo dell’Havana che diffonde ritmo e musica.
REMBETIKO* Grecia
(Costas Ferris, 1983, 120’)
In Grecia, Rembetiko è da sempre associato alla musica degli emarginati, ai rifugiati greci fuggiti della costa occidentale dell’Anatolia, ai quali furono espropriati i beni constringendoli a vivere sotto l’ultimo gradino della scala sociale greca.
Il film narra la dura vita di quanti vissero ai margini della società nei grandi centri urbani nel periodo tra l’inizio degli Anni ’20 e la fine dei ’50, che vide l’intera Grecia devastata da guerre e instabilità sia politiche che sociali. Mostrando questi tragici eventi storici, il regista Costas Ferris ricrea lo scenario di un ordine sociale sempre in bilico tra caos e collasso, sottofondo nel quale si sviluppa quel fenomeno musicale straordinario noto come Rembetiko, e la travagliata esistenza di Marika Ninou, indiscussa ‘rebetisis’. Basato sulla sua vera storia, “Rembetiko” è la rappresentazione romanzata, ma precisa e avvincente, di una vita in cui prevalgono criminalità, censura, persecuzione, uso di droghe, unita all’ambizione nel voler sfondare come cantante di Rembetiko. E’ la parabola di una donna dal fortissimo carattere che, tra determinazione e autodistruzione, viene comunque condizionata dalla drammaticità di ciò che le succede intorno.
Vincitore dell’ “Orso d’Argento” al Festival di Berlino del 1984, “Rembetiko” è considerato uno tra i film più provocatori e coinvolgenti mai usciti dalla Repubblica Ellenica.
SWING* Francia
(Tony Gatlif, 2002, 90’)
Con questo film Tony Gatlif prosegue la sua esplorazione delle culture nomadi, ieri quelle degli Tzigani e dei Gitani (“Latcho Drom” e “Gadjo Dilo”), oggi quella dei Manouche.
Seguendo due fili narrativi precisi, “Swing” mostra l’educazione sentimentale di due adolescenti e il tributo tutto musicale allo swing dei nomadi del ceppo zingaro più antico dell’Europa orientale, che negli Anni ’30 inventarono un modo nuovo di suonare (detto anche gipsy jazz), legato alla tradizione afro-americana ma con una connotazione fortemente europea.
Max ha dodici anni ed è appassionato di jazz gitano, scoperto ascoltando Miraldo, virtuoso chitarrista interpretato dal grande musicista tzigano Tchavolo Schmitt, che richiama, anche in senso biografico, la figura leggendaria di Django Reinhardt, colui che inventò lo swing manouche; per comprare una vecchia chitarra, il ragazzo si spinge nel quartiere degli zingari dove incontra personaggi unici e imparerà a conoscere ed amare non solo la musica e la cultura gitana ma anche Swing, ragazzina dal carattere forte e pieno di vitalità, che lo condurrà dentro al suo mondo.
Tra fiction e realtà, Gatlif, seguendo il suo stile, esalta la forza della musica e della passione, la spontaneità che viene dal cuore, come dimostrano gli attori/musicisti che danno vita a feste e raduni musicali totalmente improvvisati, fuori da ogni scrittura e sceneggiatura.
CRAJ (DOMANI)* Italia
(Davide Marengo, 2005, 81’)
Il lungometraggio di Davide Marengo è nato dall’ispirazione dell’omonima opera teatral-musicale di Teresa De Sio, scritta insieme a un nome storico del Rock italiano come Giovanni Lindo Ferretti. Sorta di documentario in musica, che porta lo spettatore nel “cuore” ritmico della Puglia attraverso una ricostruzione fatta di interviste a musicisti popolari alternate a spezzoni di loro esibizioni, “Craj” (Domani), basa la sua traccia narrativa sul ‘viaggio’.
E’ infatti sono proprio le avventure del principe Flordippo (un ipnotico Ferretti), insieme al suo servo Bimbascione (interpretato con divertita ironia dalla De Sio), a costituire l’ossatura principale del film: un viaggio che muove da un sogno in cui la visione della taranta, il ragno il cui “pizzico” costringe le donne a ballare in uno stato di trance, spinge l’uomo verso la terra dalla quale la leggenda ha avuto origine, il Salento. In mezzo, una serie di incontri con personaggi come i Cantori di Carpino, Matteo Salvatore, Pino Zimba e Uccio Aloisi, testimoni importanti della sopravvivenza ricca di vitalità di una tradizione popolare antica, che con le loro parole e la loro musica tracciano un affresco della terra pugliese di indubbia suggestione, riuscendo gradualmente a modificare il carattere ombroso di Flordippo insegnandogli l’importanza della musica e del confronto con gli altri.
Con questa emozionante cavalcata dal Gargano al Salento, il regista riesce a fondere istanze tipicamente popolari a una visione del cinema come contaminazione di generi e forme estetiche (il documentario, la musica, la poesia) per uscirne con un film che si fruisce in modo immediato e istintivo, così come la musica che ne costituisce l’anima.